LE AZIONI POSSESSORIE

Aspetto sostanziale e aspetto processuale delle azioni possessorie

Le azioni possessorie possono definirsi i rimedi processuali tipici a tutela del possesso.

Oggetto della tutela è pertanto quella particolare relazione di fatto con la cosa “che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale(secondo la definizione codicistica dettata dall’art. 1140 c.c.). Presupposto delle azioni possessorie e della tutela che esse apprestano è pertanto la distinzione tra possesso inteso come semplice esercizio del potere di fatto sulla cosa e diritto sostanziale sul quale, di norma, il possesso si fonda. Se l’ipotesi direi fisiologica, è quella in cui chi esercita il potere sulla cosa (corrispondente per contenuto e qualità al diritto di proprietà o ad altro diritto reale) sia il proprietario o il titolare del diritto sostanziale (e in tal caso si parla di possesso legittimo), per avere accesso alla tutela possessoria non è necessario che vi sia corrispondenza tra possesso e titolarità del diritto: ciò che viene tutelato è il possesso in quanto tale a prescindere da qualsiasi riferimento al rapporto sottostante.

Le ragioni per le quali il possesso trova questa autonoma e incisiva forma di tutela sono tradizionalmente ricollegate:

a) all’esigenza di “assicurare la pace tra i consociati contro la violenza privata”: garantendo una rapida difesa del possesso si evita che coloro che ritengano di essere titolari di un diritto reale sulla cosa (e pertanto ritengano abusivo il possesso altrui) “si facciano giustizia da sé”, dovendo al contrario adire le vie giurisdizionali;

b) all’esigenza di garantire il pacifico godimento delle cose, assicurando rilevanza giuridica alla relazione che si crea tra soggetto e bene oggetto del possesso (sul punto occorre qui ricordare che l’ordinamento riconosce una rilevante serie di effetti giuridici a tale relazione: usucapione – possesso vale titolo – disciplina dei frutti);

c) all’esigenza di assicurare una pronta protezione della proprietà e dei diritti reali in genere.

Le azioni possessorie (come le azioni nunciatorie) sono disciplinate sia dal codice civile che dal codice di procedura civile, presentando un aspetto sostanziale, concernente la posizione del possessore all’interno dell’ordinamento, e un aspetto processuale (disciplina del procedimento, competenza, poteri del giudice).

E’ stato efficacemente affermato che “le azioni possessorie appartengono al diritto sostanziale in quanto determinano il contenuto della posizione giuridica del possessore apprestando in suo favore la tutela contro date ingerenze. In corrispondenza alle azioni possessorie è possibile identificare, precisamente, il diritto del possessore a non subire spoglio o molestie nel possesso“.

Le azioni possessorie previste dal codice civile sono l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.) e l’azione di manutenzione (art. 1170 c.c.).

La loro disciplina presenta caratteristiche comuni (oltre a quelle procedimentali si pensi alla disciplina della decadenza, alla ripartizione dell’onere della prova) , ma tali azioni si differenziano sotto significativi aspetti:

oggetto o petitum (richiesta di reintegrazione o di cessazione della molestia);

legittimazione attiva (l’azione di manutenzione non compete al detentore);

presupposti oggettivi (l’azione di manutenzione richiede l’esistenza di un possesso annuale);

bene tutelato (dall’azione di manutenzione sono esclusi i beni mobili).

L’AZIONE DI REINTEGRAZIONE

L’azione di reintegrazione è l’azione volta a reintegrare nel possesso del bene chi sia stato vittima di spoglio violento o clandestino.

1 – Lo spoglio

Dal punto di vista oggettivo lo spoglio consiste nella privazione totale o parziale del possesso, che restringa o riduca le facoltà inerenti al potere sulla cosa o comunque renda meno comodo l’esercizio del diritto.

La privazione del possesso deve avere normalmente carattere definitivo e permanente e, comunque, l’effetto della lesione deve essere per lo meno duraturo.

Il concetto di privazione del possesso non è sempre di facile individuazione nell’applicazione pratica e la difficoltà di inquadrare i limiti di siffatta privazione sono più evidenti quando si tratti di distinguere tra spoglio parziale e molestia. La rilevanza di tale distinzione dal punto di vista pratico è di tutta evidenza ove si considerino i limiti soggettivi e oggettivi della tutela offerta dall’azione di manutenzione rispetto a quella di reintegrazione (di cui dopo si dirà). La giurisprudenza della Suprema Corte, nelle pronunce più recenti, ha posto la distinzione tra spoglio parziale e molestia non già sul piano della quantità bensì su quello della natura dell’aggressione all’altrui possesso, nel senso che lo spoglio incide direttamente sulla cosa che ne costituisce l’oggetto, sottraendola in tutto o in parte alla disponibilità del possessore, mentre la molestia si risolve contro l’attività di godimento del possessore disturbandone il pacifico esercizio, ovvero rendendolo disagevole e scomodo. Al fine di stabilire se sussistano gli estremi dello spoglio o della molestia, avverte la Corte, non può prescindersi dalle modalità, anche temporali, del comportamento dell'aggressore, le quali hanno rilievo per stabilire se si tratti di un impedimento duraturo, anche se non permanente, integrante lo spoglio, o di un impedimento soltanto transitorio parificabile alla mera turbativa..Va da sé che in tutti i casi dubbi, ben potrà il giudice qualificare la domanda diversamente da quanto fatto nell’atto introduttivo del giudizio: la domanda di reintegrazione contiene, infatti, anche quella di manutenzione perchè la molestia è meno ampia dello spoglio (Cass. 94/3941).

2 - violenza e clandestinità dello spoglio

La tutela ex art. 1168 c.c è accordata in caso di spoglio violento o clandestino.

LO SPOGLIO VIOLENTO

In via generale può affermarsi che lo spoglio è violento quando è consumato mediante atti di forza o minacce. La riprovazione sociale e giuridica che tale comportamento è idoneo a suscitare esige la tutela immediata del possesso, quale che sia il bene minacciato. L’interpretazione del requisito della violenza è stata però estesa dalla giurisprudenza, fino a ricomprendere nella nozione di spoglio violento qualunque azione che produca la privazione totale o parziale del possesso contro la volontà espressa o presunta del possessore.

In tal modo la giurisprudenza è giunta a ravvisare spoglio violento anche nell’ipotesi di interversione del possesso, rappresentata dal rifiuto di riconsegnare il bene opposto dal detentore che assuma di essere divenuto il possessore o il proprietario. In altri termini, e sul punto la giurisprudenza è pressoché costante, il mero rifiuto di restituzione non integra la fattispecie dello spoglio, occorrendo che tale rifiuto sia fondato sul convincimento di esercitare un proprio possesso sulla cosa come giuridicamente connotato dall’art. 1140 c.c., rimanendo escluse da tali ipotesi quelle in cui il soggetto si rifiuti di restituire il bene, opponendo un preesistente rapporto obbligatorio e continuando pertanto a detenere il bene al medesimo titolo.

Dal punto di vista pratico va qui segnalata l’ipotesi molto diffusa, del rifiuto dell’ex amministratore di condominio a consegnare la documentazione del condominio medesimo (rispetto alla quale può ipotizzarsi, in verità, anche un’ipotesi di spoglio semplice e pertanto di manutenzione recuperatoria), o le questioni inerenti il rifiuto del coniuge separato di rilasciare la casa coniugale all’altro coniuge, proprietario, quando non intervenga un provvedimento di assegnazione.

LO SPOGLIO CLANDESTINO

Lo spoglio è clandestino quando è attuato senza atti di forza o minacce, ma in maniera occulta, che non consente alla vittima di percepirlo all’istante.

Con riferimento alla nozione di clandestinità, la giurisprudenza ha chiarito che la stessa va intesa non in senso assoluto, bensì tenendo conto dei normali canoni di diligenza e pertanto lo stesso sussiste quando il possessore o il detentore, usando l’ordinaria diligenza, si sia trovato nell’impossibilità di averne avuto conoscenza, anche alla stregua delle circostanze in cui lo stesso è stato commesso.

Un esempio pratico di tale problematica è quello relativo ad atti di impossessamento di immobili non utilizzati costantemente dal possessore. In tal caso, ove non possa configurarsi un’ipotesi di spoglio violento , è compito del giudice di merito quello di accertare, tenuto conto di tutte le risultanze probatorie, se il possessore utilizzando l’ordinaria diligenza avrebbe potuto venirne a conoscenza. Tale accertamento, se immune da vizi logico-giuridici viene ritenuto incensurabile in Cassazione. La clandestinità dello spoglio dev’essere stabilita unicamente in rapporto al soggetto passivo dello spoglio, essendo irrilevante che altre persone ne siano venute a conoscenza. Tuttavia si esclude la clandestinità quando allo spoglio siano state presenti persone che in qualsiasi modo rappresentino il possessore (coniuge – amico – domestico).

3 – Elemento soggettivo dello spoglio

Secondo la prevalente giurisprudenza e parte della dottrina, elemento essenziale dello spoglio, idoneo a integrare l’elemento soggettivo dello stesso, è “l’animus spoliandi”. Con riferimento a tale requisito, a fronte di massime giurisprudenziali che ritengono sussistere tale “animus” nella mera consapevolezza di operare contro la volontà espressa o presunta dello spogliato e nella volontarietà dell’atto lesivo (fra questa Cass. 87/1577, Cass. 86/6978, Cass. 84/2108), senza che occorra alcun accertamento del dolo o della colpa, ne esistono altre che ritengono imprescindibile ai fini della configurazione dello spoglio come fatto illecito, la consapevolezza e la volontarietà dell’azione espressa secondo le forme del dolo o della colpa. Tale principio è stato recentemente affermato anche dalle Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 94/9871 e poi ribadito da Cass. 97/10366. Va rilevato che in tale sentenza la Suprema Corte ha altresì chiarito che incombe su chi propone la domanda l’onere di provare l’elemento soggettivo dello spoglio, mentre rappresenta apprezzamento di fatto – riservato al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logica e sufficiente - l’accertamento dell’esistenza dell’indicato elemento soggettivo, senza che il possessore debba anche provare la consapevolezza dell’autore della lesione di avere violato l’altrui diritto, con ciò riprendendo altre precedenti sentenze le quali avevano comunque ammesso la possibilità di desumere la volontarietà dell’azione dal comportamento complessivo dell’agente per via di logica astrazione. Esemplificativamente la giurisprudenza ha ritenuto che non sussiste l’”animus” nell’impossessamento di cosa che si trovi in stato di abbandono, di cosa consegnata da un incaricato del possessore, di cosa rispetto alla quale il possessore abbia volontariamente dismesso il possesso (si pensi anche in questo caso all’abbandono della casa coniugale). Occorre comunque ricordare in via generale che l’”animus spoliandi” non è escluso dal convincimento di esercitare un proprio contrapposto diritto.

4 – La legittimazione attiva

Legittimati attivi alla proposizione dell’azione di spoglio sono: - i possessori (diretti o mediati); - i possessori minori (a titolo di usufrutto, servitù etc.); - i nudi possessori; - i compossessori (sia nei confronti dei terzi che degli altri compossessori); - l’erede (art. 1146 c.c.); - il chiamato all’eredità (art. 460 c.c.); -i detentori. A differenza di quanto previsto per l’azione di manutenzione, l’azione di spoglio tutela sia il possesso che la detenzione. La legittimazione attiva, in tal caso, compete solo ai detentori qualificati siano essi detentori autonomi (cioè nell’interesse proprio) che detentori non autonomi (cioè nell’interesse altrui). E’ invece espressamente negata a chi detiene la cosa per ragioni di servizio o di ospitalità (art. 1169 comma secondo c.c.). Esemplificativamente si ritiene sussistere la legittimazione attiva in capo al conduttore, comodatario, mezzadro, appaltatore, curatore del fallimento, amministratore di condominio, amministratore di società. L’evoluzione giurisprudenziale ha portato a ritenere detentori autonomi anche i componenti il nucleo familiare (cfr. Cass. S.U. n. 11853/91), il coniuge, il convivente more uxorio.

La giurisprudenza è varie volte intervenuta sulla questione dell’onere probatorio del detentore, ritenendo che il regime probatorio (con la conseguente distribuzione dell’onere probatorio tra le parti) nel procedimento possessorio instaurato a tutela della detenzione qualificata è notevolmente diverso da quello a tutela del possesso in senso proprio. Mentre in questo caso il titolo da cui si assume avere origine il possesso può essere fatto valere solo “ad colorandam possessionem” , cioè per rafforzare la prova dell’esistenza di atti materiali integranti il possesso, colui che assume essere detentore qualificato ha l’onere di provare l’esistenza del titolo, da cui la detenzione ha avuto origine.

5 La legittimazione passiva

Legittimati passivi all’azione di spoglio sono anzitutto gli autori materiali dell’attività spoliatrice.

Se gli autori sono più d’uno, l’azione può essere proposta nei loro confronti congiuntamente o separatamente. Vertendosi in tema di fatto illecito, si configura infatti la responsabilità individuale di ogni singolo autore che può perciò essere convenuto nel giudizio possessorio senza la necessità della partecipazione al giudizio degli altri. Coerentemente viene esclusa la sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario o di inscindibilità di cause. Un’eccezione a tale regola si ha nell’ipotesi in cui nell’ambito del giudizio possessorio venga richiesto l’abbattimento totale o parziale di un manufatto (ipotesi frequente, si pensi ad es. alle azioni di manutenzione in cui si lamenti la costruzione di opere senza il rispetto delle distanze legali). In tal caso, venendo ad incidere direttamente il provvedimento sul diritto di proprietà, tutti i proprietari sono ritenuti litisconsorti necessari, ancorché non abbiano materialmente partecipato allo spoglio, con la conseguente necessità per il giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio.

Legittimati passivi sono inoltre coloro che rispondono del fatto degli autori secondo le norme sulla responsabilità civile. La giurisprudenza ha infine allargato la legittimazione passiva fino a ricomprendere gli autori morali dello spoglio, cioè coloro che abbiano incaricato l’effettuazione dello spoglio, o che dall’effettuato spoglio abbiano comunque tratto vantaggio. Lo spogliato può decidere autonomamente se convenire l’autore materiale dello spoglio o l’autore morale, non sussistendo neanche in tal caso un’ipotesi di litisconsorzio necessario. Tuttavia, come già rilevato per le ipotesi di spoglio commesso da più persone, si ritiene che sussista litisconsorzio necessario tra autore materiale e autore morale tutte le volte in cui la pronuncia richiesta in via possessoria comporti l’abbattimento di un bene.

Ai sensi dell’art. 1169 c.c., infine, legittimato passivo è anche chi, pur non essendo autore del fatto, abbia acquistato la cosa a titolo particolare conoscendone l’avvenuto spoglio. L’estensione della legittimazione passiva a tale soggetto, si giustifica con l’evidente intento di garantire all’azione possessoria la sua funzione tipica che è quella recuperatoria, che rimarrebbe altrimenti costantemente frustrata in tutte quelle ipotesi in cui l’autore dello spoglio si sia privato del possesso della cosa. Come incide tale previsione sulla posizione del soggetto che ha commesso lo spoglio? Uno dei problemi più dibattuti in dottrina e giurisprudenza è quello relativo all’attualità del possesso da parte dell’autore dello spoglio e cioè se sia proponibile l’azione contro l’autore che abbia cessato di possedere. Il problema è stato variamente risolto dalla giurisprudenza che oscilla tra due diversi orientamenti, per un primo, e forse maggioritario, la circostanza che lo spoliatore non sia più nella materiale disposizione del bene oggetto della lesione possessoria, costituisce fatto del tutto irrilevante ai fini dell’ammissibilità della relativa tutela e ciò anche nell’ipotesi in cui il rapporto con il bene sia cessato già al momento della proposizione della domanda. Ciò in quanto sussisterebbe comunque un interesse della parte che ha subito la lesione ad una dichiarazione di illegittimità del comportamento lamentato, che non potrebbe esimere il giudice dall’esaminare il merito della domanda, anche in assenza di richiesta di risarcimento del danno. Per un secondo orientamento, al contrario, l’esperibilità dell’azione possessoria sarebbe preclusa quando l’autore dello spoglio, prima della proposizione della domanda (diversa è infatti l’ipotesi di perdita del possesso nel corso del procedimento, nel qual caso continua, ovviamente a permanere la legittimazione passiva in capo all’autore dello spoglio), abbia definitivamente disperso o distrutto la cosa, difettando in tale ipotesi il presupposto del ripristino della precedente azione possessoria, salvo restando l’esperimento dell’azione di risarcimento del danno per il perduto godimento del bene. Tra i due diversi orientamenti, ritengo preferibile il secondo, anche in base ad ulteriori considerazioni. Il giudizio possessorio è previsto e disciplinato come procedimento speciale, caratterizzato da un particolare iter procedurale scandito dalle fasi ricorso – decreto – provvedimento immediato, creato al fine di garantire la finalità recuperatoria che va prontamente soddisfatta. Nell’ipotesi in cui tale finalità, fin dal momento della proposizione del ricorso, non sia di fatto perseguibile, sembra doversi escludere l’utilizzabilità del procedimento speciale possessorio. A tali considerazioni se ne poteva aggiungere in passato una ulteriore, allo stato superata dall’introduzione del giudice unico di primo grado, e cioè che stante l’attribuzione delle azioni possessorie alla competenza esclusiva del Pretore, competente a conoscere anche della conseguente richiesta di risarcimento dei danni senza limiti di valore, la proposizione di un’azione possessoria, priva sin dall’inizio della possibilità di recuperare il bene, poteva determinare un’elusione dei criteri di riparto di competenza relativamente all’azione di danni.

6 – Oggetto della tutela

Oggetto dello spoglio possono essere i beni immobili, le universalità di mobili, i beni mobili e in generale qualunque bene che sia suscettibile di possesso ivi compresi i beni non corporali (si pensi alle azioni, in passato molto frequenti, a tutela del possesso di canali televisivi, onde radiofoniche etc.). Lo spoglio può concernere altresì il possesso dell’esercizio di atti di dominio sulla cosa, di atti di diritti reali su cosa altrui, di servitù, comprese quelle negative e non apparenti.L’azione di spoglio è data a tutela di qualunque genere di possesso, sia pure illegittimo e viziato,purché abbia esteriormente il carattere del godimento del diritto.

7 – Termine per l’esercizio dell’azione

A norma dell’art. 1168 c.c. l’azione di reintegrazione deve essere proposta entro un anno dal sofferto spoglio. Il termine è di decadenza, e pertanto non è soggetto alle causa di sospensione e interruzione della prescrizione e non è rilevabile d’ufficio. Costituendo la tempestività un presupposto necessario dell’esercizio dell’azione, se la stessa viene posta in discussione dal convenuto, incomberà sull’attore l’onere di fornire la prova. Se tale prova non viene fornita o la stessa non è ritenuta sufficiente dal giudice, secondo gli ordinari principi in tema di valutazione della prova (frequente nell’ipotesi in esame è la discordanza tra le dichiarazioni testimoniali) la conseguenza sarà l’improponibilità della domanda, ivi compresa quella tendente all’introduzione del giudizio di merito, a meno che, nella fase a cognizione piena il ricorrente non fornisca nuove prove idonee a dimostrare il tempestivo esercizio dell’azione possessoria. Il termine deve essere computato con riferimento alla data del deposito del ricorso in cancelleria e non a quella della notifica del ricorso e del decreto. Esso decorre , in caso di spoglio violento dal momento in cui lo spoglio è consumato, o è cessata la violenza, e in caso di spoglio clandestino dalla scoperta, o meglio, secondo l’orientamento prima ricordato, dal momento in cui lo stesso avrebbe potuto essere conosciuto utilizzando l’ordinaria diligenza.

Il problema del computo del termine per l’esercizio dell’azione si pone in termini più complessi per tutte le ipotesi in cui la violazione del possesso avviene con più atti successivi. Quando gli atti sono tra loro autonomi e pongono in essere ciascuno distinte fattispecie di spoglio o turbativa (pur dirette contro lo stesso bene e contro una medesima situazione possessoria) il termine decorre ex novo per ognuno di essi. Quando gli atti sono tra loro connessi in modo da formare un’unica azione a carattere continuativo, l’anno utile decorre dal primo atto già di per sé idoneo a porre in essere la turbativa, con la conseguenza che gli atti a questo successivi, che ne rappresentino solo l’estrinsecazione o la continuazione, non comportano un nuovo decorrere del termine per l’azione. Diremo che sono connessi quegli atti che presentano una connessione oggettiva (atti diretti a realizzare il medesimo fine) ed una connessione soggettiva (in quanto posti in essere dal medesimo soggetto) nei quali sia pertanto ravvisabile un unico iter nell’esecuzione. Quando l’azione di reintegrazione ha per oggetto un atto obiettivamente idoneo a integrare lo spoglio, spetta al convenuto l’onere di provare che lo spoglio sia ricollegabile a fatti verificatisi in precedenza.

L’AZIONE DI MANUTENZIONE

L’azione di manutenzione, disciplinata dall’art. 1170 c.c., è diretta a fare cessare la molestia nel possesso. Abbiamo già accennato alle differenze tra spoglio e molestia nel possesso. Può qui ribadirsi che la molestia o turbativa consiste nell’attività che ostacola o rende più gravoso il possesso: a differenza dello spoglio non priva il possessore del godimento del bene, ma ne turba l’esercizio.

1 - La molestia

La molestia può consistere in un’attività materiale o in un’attività giuridica.

L’attività materiale può poi consistere in alterazioni del bene oggetto del possesso (es. tipico violazione delle distanze legali, in ingerenze abusive (esercizio di una servitù oltre il suo contenuto), in minacce volte ad ostacolare o impedire l’esercizio del possesso. Frequente è l’uso dell’azione di manutenzione per tutelare servitù non apparenti o servitù negative (ad es. “servitus altius non tollendi”), servitù di veduta o di luce. In tali ipotesi è frequente che l’ambito dell’azione di manutenzione coincida con quello di altra azione cautelare e precisamente la denunzia di nuova opera (si pensi all’ipotesi in cui si lamenti la costruzione di un’opera in violazione delle distanze legali con la conseguente lesione, ad es. del possesso di una servitù di veduta), anch’essa concessa al possessore.

La scelta tra i due tipi di azione spetta ovviamente al ricorrente, che dovrà tenere conto dei diversi limiti imposti all’esperimento delle rispettive tutele. Con riferimento alla tutela della servitù (e in particolare alla servitù di veduta la cui lesione pare assai diffusa soprattutto nell’ambito dei rapporti di vicinato), con l’azione di manutenzione possono essere represse anche attività che esulano dalla tutela delle distanze legali in senso proprio, ma che purtuttavia determinano consistenti compressioni all’esercizio del possesso. Mi riferisco a tutte le ipotesi in cui non si è al cospetto di una costruzione in senso stretto (pur nell’evoluzione giurisprudenziale che tale concetto ha avuto) e in cui, pertanto, non sono applicabili le norme sulle distanze legali. Soccorre al riguardo l’art. 1067 c.c. che impone al proprietario del fondo servente il divieto di diminuire l’esercizio della servitù o di renderlo più incomodo. Applicando tale norma possono agevolmente risolversi le annose e frequenti questioni in ordine all’apposizione di tende, canneti, coperture varie di terrazze e balconi che contraddistinguono la vita dei condomini, senza addentrarsi nel difficile accertamento se le stesse siano o meno costruzioni. Possono farsi rientrare nell’ambito delle molestie anche le immissioni (rumore, odore, calore). Per tali ipotesi, però, attesa la diretta incidenza che le stesse hanno su un diritto costituzionalmente garantito quale quello alla salute, è ipotizzabile (ché anzi è il più frequentemente usato) il ricorso alla tutela atipica ex art. 700 c.p.c..

La molestia giuridica consiste nel compimento di atti giuridici volti ad ostacolare o impedire l’esercizio del possesso (ingiunzioni, opposizioni, diffide), qualora tali azioni siano prive di fondamento giuridico. In tutti i casi, perchè possa ritenersi sussistente la molestia, occorre che questa consista in un’attività persistente, o in atti destinati ad avere un seguito. In altri termini la molestia è tale, quando arrechi un apprezzabile disturbo.

2 - L’elemento soggettivo della molestia

Anche per l’azione di manutenzione è richiesta la sussistenza dell’ "animus turbandi", anche in tal caso consistente nella volontà di compiere un atto che modifichi l’altrui possesso.

3 – La legittimazione attiva

La legittimazione attiva nell’azione di manutenzione spetta a norma dell’art. 1170 c.c. al solo possessore e non anche al detentore. Ma non è sufficiente essere possessore: è necessario che questi sia nel possesso del bene da oltre un anno, che tale possesso sia stato continuo, ininterrotto e che non sia stato acquistato in modo violento o clandestino. E’ opportuno ricordare che il requisito dell’ultrannualità del possesso condiziona solo la proposizione dell’azione di manutenzione e non invece la proposizione dell’azione di reintegrazione per la quale è richiesta l’unica condizione dell’infrannualità dello spoglio, necessaria anche ai sensi dell’art. 1170, per la cui problematica si rinvia pertanto a quanto già esposto. Con riferimento al requisito del possesso ultrannuale secondo la Suprema Corte, (anche se trattasi di sentenza risalente nel tempo n. 64/2641), la sua mancanza può essere rilevata d’ufficio anche dal giudice.

4 – La legittimazione passiva

Per quanto attiene alla legittimazione passiva, può qui richiamarsi quanto già detto per l’azione di spoglio.

5 – Oggetto della tutela

Ai sensi dell’art. 1170 c.c. l’azione di manutenzione può essere esperita solo a tutela del possesso di beni immobili o di universalità di mobili, restando perciò escluso il possesso di beni mobili.

6 – Lo spoglio semplice

In presenza dei requisiti che condizionano l’esperibilità dell’azione di manutenzione, l’azione può essere esercitata anche contro lo spoglio semplice, cioè né violento né clandestino.  Tradizionalmente si riteneva spoglio semplice quello integrato dall’interversione nel possesso, che  la giurisprudenza attualmente qualifica come spoglio violento. L’estensione del concetto di spoglio violento a qualsiasi atto di spoglio commesso contro la volontà del possessore lascia in verità ben poco spazio alla nozione di spoglio semplice.

LA TUTELA OFFERTA DAL PROCEDIMENTO POSSESSORIO

Le azioni possessorie mirano:

a) al ripristino della situazione possessoria violata (in caso di spoglio);

b) alla cessazione della molestia (in caso di manutenzione).

In questo ambito il giudice può emettere svariati provvedimenti che vanno dall’ordine di restituzione del bene sottratto (quando ciò avviene nel caso di spoglio semplice si parla di manutenzione recuperatoria), alla distruzione di opere che impediscono il pieno godimento del possesso o ne comprimano l’esercizio, alla ricostruzione di opere danneggiate o distrutte, etc.. Per quanto attiene in particolare il provvedimento emesso a conclusione della fase sommaria, lo stesso dovrà altresì contenere le modalità di attuazione del provvedimento stesso.

Il provvedimento interdittale, invero, è immediatamente esecutivo. Già prima dell’entrata in vigore della legge di riforma e dell’introduzione delle norme relative al procedimento cautelare la giurisprudenza era orientata a ritenere, in linea con l’interpretazione data in tema di provvedimenti cautelari, che l’esecuzione del provvedimento possessorio ex art. 703 c.p.c. avesse carattere di specialità: per essa non si chiedeva pertanto il rispetto delle formalità previste per l’esecuzione forzata in generale (art. 474 e ss. c.p.c.), così come delle norme relative all’esecuzione degli obblighi di fare.

Il nuovo art. 669 duodecies ha recepito tale interpretazione.

Ai sensi della suddetta norma il giudice che ha emesso il provvedimento è altresì competente a determinare le modalità di esecuzione e a risolvere eventuali “difficoltà o contestazioni” che sorgano nel corso dell’esecuzione, nel contraddittorio tra le parti.

LE AZIONI NUNCIATORIE

Carattere strumentale e profili sostanziali delle due denunce

Diversamente da quanto abbiamo visto per le azioni possessorie, le azioni nunciatorie possono considerarsi a pieno titolo azioni cautelari. Dal punto di vista sostanziale trovano la loro disciplina negli artt. 1171 e 1772 c.c., collocati nell’ambito delle azioni a tutela del possesso, pur essendo le stesse dirette in via immediata anche alla tutela della proprietà e degli altri diritti reali. Il codice civile riconosce invero la legittimazione a proporre tali azioni sia al proprietario che al possessore, le subordina all’esistenza di una situazione di pericolo di danno alla cosa oggetto del diritto, così escludendo dal novero delle azioni nunciatorie tutte le ipotesi in cui si lamenti l’insorgere di danno di natura esclusivamente personale.

Nella denunzia di nuova opera (art. 1171 c.c.) a provocare il pericolo di danno è l’attività umana in svolgimento, e la denunzia mira, appunto, ad evitare la prosecuzione di tale danno. Nella denunzia di danno temuto (art. 1172 c.c.) il pericolo di danno (qualificato come grave e prossimo) è ingenerato da “qualsiasi edificio, albero o altra cosa” e pertanto si parla di danno da cosa a cosa, determinato dalla natura intrinsecamente pericolosa della cosa o da eventi che nella stessa si sono determinati sì da ingenerare lo stato di pericolo.

Tale situazione di pericolo può peraltro essere determinato dall’opera dell’uomo (es. costruzione di una fabbrica che minaccia di crollare), ma in tal caso l’attività umana assume rilievo puramente mediato, perchè il pericolo dipende direttamente dalla cosa. Il criterio discretivo tra denuncia di nuova opera e denuncia di danno temuto risiede pertanto nel diverso modo in cui l’attività umana ha determinato l’insorgere del pericolo e nella conseguente diversità del rimedio da adottare. La prima, infatti, postula un “facere”, cioè l’intrapresa di un opera capace di arrecare pregiudizio alla proprietà o al possesso altrui, la seconda postula un “non facere”, ossia l’inosservanza dell’obbligo di rimuovere la situazione di pericolo derivante dalla cosa e comportante il pericolo di danno grave e prossimo per il bene.

La rilevanza pratica di tale distinzione sta nel fatto che la denuncia di danno temuto non è soggetta alle decadenze fissate per la denuncia di nuova opera e il relativo provvedimento immediato non è predeterminato nel suo contenuto e può variare secondo le esigenze, essendo finalizzato all’eliminazione dello stato di pericolo, mentre il provvedimento ex art. 1171 c.c. è essenzialmente il provvedimento di sospensione dell’opera intrapresa. Tali azioni poi, possono essere proposte contestualmente, come quando si intenda denunziare non solo il fatto che la nuova opera sia stata intrapresa senza l’osservanza delle distanze legali, ma anche che essa ingenera una situazione di pericolo perchè non realizzata a regola d’arte.

LA DENUNCIA DI NUOVA OPERA

La denuncia di nuova opera può essere esercitata a tutela di diritti soggettivi che comportano la riduzione in pristino, e non anche a tutela di quei diritti dalla cui lesione deriva soltanto l’obbligo di risarcire il danno. Tale azione tende infatti ad ottenere, in via provvisoria, che venga arrestato il compimento di un’opera che minaccia l’integrità della cosa altrui ed in via definitiva, nel giudizio di merito, al ripristino della situazione preesistente. Deve in verità ritenersi estranea alla natura e finalità di tale azione la possibilità di un’autonoma richiesta del solo risarcimento del danno. Atteso il carattere strumentale della tutela nunciatoria ad essa potrà accedersi solo quando la nuova opera, potenzialmente produttiva di danno venga direttamente ad incidere sulla cosa oggetto del diritto o del possesso, coinvolgendo così il correlativo diritto soggettivo reale o la corrispondente situazione possessoria. Ove il danno lamentato abbia carattere personale e non reale, e sia quindi destinato ad essere risarcito solo per equivalente e non anche in forma specifica, attraverso la riduzione in pristino, il danneggiato non potrà fare ricorso alla denuncia al fine di ottenere la sospensione dell’opera. Fondamentale diventa al riguardo l’interpretazione data dalla giurisprudenza ed anche dalla dottrina agli artt. 871 e 872 c.c. che rinviano alle leggi speciali e ai regolamenti in materia edilizia al fine di stabilire le regole da osservarsi nelle costruzioni.

Può ritenersi oramai acquisita la distinzione all’interno di tali disposizioni tra norme integrative delle disposizioni del codice civile sui rapporti di vicinato (regolati dal libro III, titolo 2°, capo 2°, sez. IV, art. 873 e ss.) e norme che, seppur intese a garantire una migliore coesistenza ed utilizzazione della proprietà privata sono essenzialmente rivolte a realizzare finalità di interesse pubblico, relative all’igiene pubblica, alla viabilità, alla conservazione dell’ambiente. La rilevanza di tale distinzione risiede nella diversa tutela apprestata dall’ordinamento: ed invero la violazione delle norme c.d. integrative comporta oltre al risarcimento del danno (giusta la previsione dell’art. 872 comma 2°) anche la riduzione in pristino, e ciò in forza del diritto soggettivo del danneggiato alla eliminazione dello stato di cose abusivamente creato, mentre la violazione delle norme c.d. non integrative comporta solo il diritto al risarcimento del danno, trattandosi di norme che pongono in essere obblighi legali di natura personale e non reale la cui osservanza può essere coattivamente imposta solo dalla P.A.

1 – Caratteristiche della nuova opera

Perchè possa accedersi alla tutela ex art. 1171 c.c. l’opera deve essere:

1) nuova : deve cioè avere comportato una modificazione dello stato dei luoghi (costruzione, demolizione, scavo, apertura di una finestra, ecc.);

2) iniziata : l’art. 1171 parla infatti di un’opera intrapresa e che abbia avuto inizio, il che porta ad escludere che sia iniziata l’opera se non siano stati compiuti degli atti idonei a darle consistenza e fisionomia e tali non sono i c.d. atti preparatori (ad es. l’allestimento dei materiali occorrenti per la costruzione);

3) non ultimata : l’opera deve ritenersi ultimata quando sussista la possibilità di un uso attuale secondo la destinazione sua propria (non può ritenersi, ad es. ultimata la fabbrica priva di infissi, servizi).

Quel che conta è che l’opera non sia compiuta al tempo della presentazione del ricorso: è questo infatti il momento in cui l’istante denunzia la nuova opera e può ottenere dal giudice anche con decreto inaudita altera parte l’emanazione del divieto della sua continuazione.

2- Termine per la proposizione dell’azione

Ai sensi dell’art.1171 comma 1° c.c. la denuncia di nuova opera può essere proposta entro il termine di un anno dall’inizio dell’opera. Anche in tal caso il termine va computato con riferimento alla data del deposito del ricorso presso la cancelleria del giudice. Il termine è un termine di decadenza, non è soggetto pertanto alle cause di sospensione ed interruzione della prescrizione, e, non essendo posto a tutela dell’interesse delle parti, ma per ragioni di ordine pubblicistico, può essere rilevato d’ufficio dal giudice. A differenza di quanto abbiamo visto accadere per le azioni possessorie, il decorso di un anno dall’inizio dei lavori, così come l’eventuale ultimazione dell’opera, rilevano solo nell’ambito del giudizio cautelare ed ai fini dell’adozione del “desistat”, ma non interferiscono sul futuro giudizio di merito (che ha carattere indipendente rispetto al procedimento sommario) e con la proponibilità della relativa domanda.

3 – Legittimazione attiva e passiva

Legittimati attivi alla denuncia di nuova opera (ma analoghe considerazioni possono svolgersi per quanto attiene alla denuncia di danno temuto) sono il proprietario o il titolare del diritto reale sia che abbia o non abbia il possesso della cosa, il possessore, il compossessore (anche quando gli altri compossessori tollerino la nuova opera). Si ritengono legittimati a proporre tale azione in via surrogatoria il creditore del titolare del diritto reale di godimento, il custode, il sequestratario giudiziale, il curatore del fallimento e dell’eredità giacente. Tale legittimazione non spetta pertanto al detentore. La legittimazione passiva nella denuncia di nuova opera, essendo tale azione diretta ad ottenere un provvedimento che assicuri la conservazione della situazione materiale dedotta in causa con l’inibizione di un suo mutamento, spetta tanto all’autore materiale che all’autore morale dell’opera.

4 – Le opportune cautele (art. 1171 /2 c.c.)

Recita l’art. 1171 2° comma c.c. “l’autorità giudiziaria presa sommaria cognizione del fatto, può vietare la continuazione dell’opera, ovvero permetterla, ordinando le opportune cautele; nel primo caso per il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione dell’opera, qualora le opposizioni al suo proseguimento risultino infondate nella decisione del merito; nel secondo caso per la demolizione o riduzione dell’opera e per il risarcimento del danno che possa soffrirne il denunziante, se questi ottiene sentenza favorevole , nonostante la permessa continuazione”. Le opportune cautele di cui parla la norma costituiscono, nel sistema predisposto dal legislatore delle vere e proprie controcautele obbligatorie, funzionalmente e necessariamente collegate ai provvedimenti tipici previsti dalla norma in esame (sospensione o continuazione dell’opera) e sono appunto intese ad evitare il pericolo di danno che da tali provvedimenti possa eventualmente derivare alla parte che li ha subiti e che all’esito del giudizio di merito risulti vittoriosa. Essi consistono normalmente nell’imposizione di una cauzione, cioè di una prestazione patrimoniale.

LA DENUNCIA DI DANNO TEMUTO

L’art. 1172 c.c. riconosce la facoltà di esperire tale azione al proprietario, al titolare di altro diritto reale di godimento o al possessore che “ha ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che formi oggetto del suo diritto o del suo possesso”.

La stessa presuppone, pertanto, l’esistenza di una situazione di pericolo incombente sulla cosa e derivante, come abbiamo già rilevato, non dall’attività umana, bensì da altra cosa, rispetto al quale pertanto l’attività umana, ove compiuta ha carattere generalmente mediato. Tra le azioni nunciatorie la denunzia di danno temuto è certamente, dal punto di vista pratico, la più ricorrente: garantisce al proprietario o agli altri soggetti legittimati la rapida tutela delle proprie posizioni di diritto relativamente alla propria cosa e la pronta eliminazione delle cause del paventato danno. Dal punto di vista delle condizioni per il suo esercizio, non presenta alcuno dei limiti previsti dall’art. 1171 c.c. per l’esperimento della denuncia di nuova opera, richiedendo solo l’esistenza di un pericolo di danno “grave e prossimo” alla cosa. Anche per l’esperimento della denuncia di danno temuto è pertanto necessario che il danno concerna il bene oggetto del diritto (rimanendo escluse dall’ambito della relativa tutela le azioni personali) e lo stesso deve altresì essere qualificato dalla gravità e dall’imminenza. Il pericolo cioè deve essere di portata tale da minacciare significativamente l’integrità della cosa e deve essere prossimo e non meramente eventuale. Sarà poi compito del giudice del merito quello di accertare in concreto l’esistenza di tale danno e se lo stesso sia connotato dai requisiti richiesti, tenendo conto delle finalità a cui la tutela cautelare è diretta e in particolare dell’esigenza di evitare che nelle more del giudizio di merito il perdurare della lamentata situazione pregiudizievole possa causare danni di maggiore spessore rispetto a quelli già accertati (si pensi al riguardo alla frequenza dell’utilizzazione dell’azione ex art. 1172 c.c. in tema di infiltrazioni di umidità).

Va qui segnalata la differenza tra la qualificazione del danno contenuta nell’art. 1172 c.c. e quella contenuta nell’art. 700 c.p.c. (connotato dall’imminenza ed irreparabilità) ai fini dell’accoglimento delle rispettive richieste di tutela, e ciò in quanto è frequente che nella materia in esame il ricorso venga proposto e prospettato utilizzando lo strumento dell’art. 700 in luogo di quello corretto dell’azione nunciatoria, con la conseguenza che il più delle volte lo stesso sarebbe inaccoglibile, appunto, per l’insussistenza di un danno irreparabile. Soccorre al riguardo il potere – dovere del giudice di qualificare la domanda sulla base dei fatti prospettatigli, prescindendo dalla denominazione, eventualmente erronea, che la parte abbia utilizzato nel proporre il ricorso. Accertata l’esistenza del pericolo, il giudice potrà adottare il tipo di provvedimento che ritenga più idoneo alla sua eliminazione, tendenzialmente finalizzato all’eliminazione della causa del danno, senza essere vincolato in alcun modo, e generalmente sulla scorta di accertamenti di ordine tecnico, la cui necessità, è in verità, piuttosto frequente in questa materia.

1 – Legittimazione attiva e passiva

Vanno qui ribadite le considerazioni già fatte con riferimento alla denuncia di nuova opera. Per quanto attiene al comproprietario o compossessore, va segnalata l’ipotesi frequente in cui l’azione sia esperita nei confronti degli altri comproprietari, ad es. in tema di comunione di edifici. In tal caso, in ipotesi di accoglimento della domanda cautelare, sarà cura del giudice, precisare un provvisorio criterio di ripartizione delle spese tra i vari soggetti ed emettere un provvedimento che imponga anche al ricorrente di partecipare alle spese necessarie all’esecuzione delle opere necessarie all’eliminazione del pericolo. Va ribadita poi la carenza di legittimazione attiva del mero detentore, dovendosi segnalare la frequenza con cui tale azione viene proposta da tali soggetti non legittimati. Si pensi in particolare al conduttore che lamenti l’esistenza di infiltrazioni nell’immobile condotto in locazione, sia nei confronti del proprietario che nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili del danno (ad es. condominio). In tal caso, in verità, l’unico strumento utilizzabile sembra la tutela cautelare atipica ex art. 700 c.p.c., purchè ne ricorrano i relativi presupposti ed in particolare l’imminenza ed irreparabilità del pregiudizio, che non può pertanto essere di natura esclusivamente patrimoniale, ma deve necessariamente coinvolgere altre posizioni di diritto soggettivo tutelabili (si pensi al diritto alla salute). Per quanto attiene alla legittimazione passiva, la stessa può ritenersi radicata in capo al soggetto che ha l’onere di eliminare la situazione pregiudizievole o comunque di provvedere alla custodia o manutenzione del bene al fine di evitare l’insorgere di danni a terzi. Anche per tale tipo di azione va affermata, però, l’esistenza di un litisconsorzio necessario nei confronti del proprietario del bene (o di tutti i comproprietari qualora si tratti di un bene comune) qualora l’eliminazione della situazione di pericolo debba essere attuata mediante demolizione di un’opera.

2 – L’idonea garanzia (art. 1172/2 c.c.)

A norma dell’art. 1172 2° comma c.c., “l’autorità giudiziaria, qualora ne sia il caso, dispone idonea garanzia per i danni eventuali”.

L’imposizione di tale garanzia, a differenza di quanto avviene per la denuncia di nuova opera, è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito. Anche in tal caso ci si muove nell’ambito tipico delle cauzioni. In base al tenore letterale della norma deve poi ritenersi che tale provvedimento sia diverso (anche se compatibile e cumulabile) con quello previsto dal primo comma del medesimo articolo con cui il giudice pone a carico del resistente l’esecuzione delle opere necessarie al fine di ovviare alla situazione di pericolo, e pertanto abbia riferimento a danni eventuali e diversi rispetto a quelli previsti dal citato 1° comma. Un raffronto sistematico con quanto previsto in tema di denuncia di nuova opera porta a ritenere plausibile che i danni ai quali fa riferimento la norma possano essere anche quelli che verrebbe a subire il resistente per il caso di illegittima emissione di un provvedimento cautelare, con la conseguenza che la stessa potrebbe essere imposta anche al ricorrente.